Colui il quale prenderà senza dubbio posizione contro questo nostro breve excursus tra i tipi più diffusi di baccalajuoli, affermando con alterigia che buttiamo fango su questa nobile categoria di gentiluomini. È un tipo pieno di formule infallibili accompagnate da sentenze ampollose e altisonanti, che lo sostengono nel negare vistosamente qualsiasi innovazione, seppur modesta, intonando in continuazione la giaculatoria della perfezione delle ricette tradizionali. Nei suoi discorsi studiati ad arte egli vede la cucina come se questa prestasse davvero fede alle dottrine delle quali, nell’intimo, lui stesso si beffa; come tutti gli altri, del resto. Si persuade e vuol persuadere che presto o tardi i migliori chef de cuisine cambieranno il loro modo di vedere il baccalà, fulminati come Paolo sulla strada di Tarso, per dare ragione alle sue teorie.
Il Baccalajuolo di questa specie è alla fine una caricatura del Baccalajuolo Soprintendente (vedi avanti). Il Puritano è un ipocrita che nelle sue filippiche sul degrado della cucina tutto corregge e tutto indirizza; riga dritto solo davanti ai soloni storicamente affermati dei quali non osa mettere in discussione una sola parola, non riflettendo sul fatto che anch’essi, ai loro tempi venivano considerati spregiudicati rivoluzionari dai loro conterranei. Di solito questo tipo di Baccalajuolo è uno sporcaccione che, con tutto il suo ciarpame teorico e morale, non perde occasione di correre dietro alle cameriere più procaci, anche in quei ristoranti e in quelle trattorie dove di baccalà vi è una sola preparazione e nemmeno tanto buona.
Per fortuna punta alla meta con onestà: è quello che si incarica di provvedere agli interessi della comunità, di sorvegliare lo stato psicofisico dei cucinieri e del personale di sala e di cucina, dal maître al lavapiatti, avvertendo tutti in continuazione dei pericoli nei quali rischiano di incorrere mettendo così in pericolo la loro fama e la loro carriera. Nel frattempo non vede quello che gli mettono sotto il naso nella bettola di quartiere nella quale è solito rifocillarsi.
È quello che va celebrando le dolcezze del baccalà, incitando ognuno a cibarsene ed a scoprirne le squisitezze, mentre compiange l’ottusità di coloro i quali ne ignorano i pregi e non sono con lui nello scoprirne le delizie. E chi racconta al mondo la sua apologia del baccalà? Solitamente colui che provvede ad avvelenarlo quotidianamente.
È quello che per ordine del medico si astiene dal mangiare stocco e baccalà se non rigorosamente in bianco. Sua moglie non può fare a meno di contravvenire a questi dettami terapeutici e lo sposo non avrà quindi nessun diritto di aversene a male al profumo invadente del baccalà fritto o al fascino discreto del Coronel tonné.
È quello che unendo parossisticamente attenzioni e premure alle proprie doti fisiche e morali, e meritando sotto ogni punto di vista un baccalà eccellente e ben condito, viene ingannato tuttavia da un ristoratore disonesto e riceve la simpatia di quanti lo proclamano degno di miglior sorte.
È quello che, privo di mezzi personali per permettersi un buon ristorante, si rassegna a ciò che il cielo gli mena, e si trincera dietro l’etica e la morale, osservando che sono dei veri sciagurati, immorali e scialacquatori quelli che possono felicemente permetterselo.
È quello che si fa gioco dei confratelli, dipingendoli come imbecilli che meritano il destino di mangiare male, non condividendo questi ultimi i piatti e i locali da lui preferiti. Quelli che lo sentono e con condiscendenza lo sopportano, applicano a lui il versetto evangelico “Signore perdona loro quello che dicono, perché non sanno quello che mangiano”.
È quello che, avendo rivolto terribili minacce ai cucinieri crede di essersi messo al sicuro da loro iniziative più o meno lecite. Si vanta di aver sbaragliato le loro trame da apprendisti stregoni grazie al terrore che ostentatamente diffonde. Costui viene di norma beffato da uno di quelli che fingono timor sacro, o che addirittura pubblicamente plaudono alle sue “scipionate” e gli assicurano che è il solo a capirne veramente di come si trattano stocco e baccalà.
È un vecchio volpone che, al corrente di tutte le turpitudini che i cuochi sono soliti perpetrare nelle loro cucine, e capace di fiutare a distanza trucchi, inganni e accorgimenti, usa espedienti raffinati e sempre nuovi per coglierli in fallo. Ottiene contro di loro spesso notevoli risultati ed è considerato con riverenza e rispetto. Ma come il più esperto e valoroso dei generali non può vincere tutte le battaglie, così ci sarà sempre uno chef che a mezza voce, sogghignando, racconterà ai suoi colleghi di come una volta…
È quello che si dà da fare per precorrere i tempi e che si affretta a lanciare alla ribalta il suo chef preferito, perché questi, una volta, ma solo per una volta, ha preparato un piatto seguendo le sue indicazioni. Ma ad aver provveduto poi, a levarlo al più presto dal menù.
È quello che sente con un sorriso a fil di labbra le ragioni degli addetti ai lavori e al quale questi ultimi fanno capire che anche il Baccalajuolo più esperto talvolta deve saper fare qualche passo indietro in nome dell’armonia in cucina e deve consentire dei diversivi, raramente innocenti, per non morire di noia.
Pur non appartenendo ad alcuna famiglia criminale, è quello che annoiato da stocco e baccalà, ostenta di sapervi rinunciare, e additando un astro nascente, o presunto tale, lo battezza marchese del tarantello, plenipotenziario dell’aringa, principe dell’haddok, ma soggiunge: “Quando li conoscerà a fondo quanto me, se ne stancherà”.
È quello la cui moglie, si sarebbe detto una volta, “è quella che porta i pantaloni” e che in società, come al ristorante, non è in grado di muoversi da solo. Si perde davanti al menu, non riesce a seguire il cameriere nel malcapitato caso questi elenchi i piatti troppo rapidamente, non ricorda il nome di quel piatto che una volta, non sa dove, gli piacque tanto, il vino bianco o rosso, faccia lei. È lei quindi a dover ordinare per entrambi, a dover spiegare pazientemente al maître le sue allergie, le idiosincrasie, le intolleranze, il punto di cottura preferito, niente piccante, per carità! Si narra che un giorno, solo ad una riunione, abbia sussurrato agli amici che lo sfottevano, pur se benevolmente “Ah! Se ci fosse mia moglie, saprebbe lei come mettervi a posto”.
È il catecumeno della categoria, quello che ha fede cieca nella storia di Querini, che crede nei principi del Concilio di Trento e nei buoni insegnamenti di Cerini di Castegnate, e pensa, come tutte le persone di buon cuore, che gli chef ne raccontino più di quante ne facciano, che ci sono ancora milioni di scelle e che fortunatamente ci vorrà assai tempo per rovinarle tutte. Magari qualcuno veramente esagera, ma essendo sinceramente devoto e credendo fermamente nell’arte dei cucinieri, pensa, in cuor suo, di essere lui il malfidato.
È quello che si trova costretto a mordere il freno in silenzio. Convenienze di famiglia, interessi professionali o semplice amor di pace lo obbligano a farsi piacere il baccalà. Pur di far parte e ricever lustro da una celeberrima Accademia, comprime il proprio dispetto e fa buon viso: naturalmente, è portato a criticare, in modo capzioso, tutti i piatti che gli vengono serviti. Molto simile al Baccalajuolo Recalcitrante, non vuole abituarsi a vedersi circondato da piatti di baccalà e si appiglia a qualunque pretesto pur di ordinare qualcosa di diverso.
È quello che una volta si affidava a banditori e stampava manifesti, ma che oggi si rivolge ai media, a Facebook, a TripAdvisor o quant’altri e gridare allo scandalo per sollevare l’opinione pubblica contro questo o quel cuciniere, reo di avergli “intossicato una serata”, fatto fallire “una conquista ormai cosa fatta” provocato “un disastro gastro-psichico”. Minacciando improbabili quanto aleatorie vie di fatto, si espone unicamente agli sfottò degli amici. Molto vicina come posizione, ma assai più sommessa e lacrimosa, e quella del Baccalajuolo Trombetta, che all’epoca sia Diderot che D’Alembert evitavano come la peste; il quale, ieri come oggi, con fare tra il mesto e l’indignato, ignorando i progressi della comunicazione, va in giro lamentandosi con tutti quelli che incontra dell’iniquo trattamento subito, della pessima qualità del cibo servitogli, della errata ammollatura dello stocco e quant’altro. A tutti i tentativi di rabbonirlo, risponde continuando a raccontare l’incredibile oltraggio subito e userebbe volentieri un megafono per farsi ascoltare da un pubblico più vasto, continuando ad ignorare che la cucina, la tecnologia e il mondo sono andati avanti anche senza di lui.
È quello che vede tutto nella luce migliore, colui che entra nella bettola come nel ristorante blasonato con un sorriso a sessantaquattro denti, che brinda e beve alla salute dei presenti, che apprezza ogni piatto che gli viene messo davanti, che si complimenta con il cuoco per le sue innovazioni anche se azzardate, e che trova motivi di allegria dove altri si strapperebbero i capelli a ciocche.
Sembrerebbe un idiota a piede libero, ma non è forse il più saggio di tutti?